BYUNG-CHUL HAN, LA SOCIETÀ SENZA DOLORE

Di Han vi ho già parlato analizzando il suo saggio pubblicato nel 2023 da Einaudi, Le non cose, ma questo filosofo coreano naturalizzato tedesco, fino a poche settimane fa a me totalmente sconosciuto, è ormai diventato una guida, anzi un vero e proprio faro nella notte, che mi aiuta ad orientarmi nella società contemporanea, distante anni luce - tanto da apparirmi per certi versi aliena e distopica - da quella in cui sono nata, cresciuta e diventata donna.


In questo breve saggio, Han affronta il tema del dolore in tutte le sue accezioni, sia fisiche che spirituali, e della sua rimozione sistematica dalle nostre vite. Questo è un bene, una grande conquista del progresso, penserete voi. Non proprio, risponde Han. Cerchiamo di capire perché.

Paura del dolore

Secondo Han, il nostro rapporto col dolore rivela in che tipo di società viviamo: 

"Se le sofferenze vengono lasciate solo alla medicina, ci sfugge il loro carattere di segni (...) Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore. Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L'algofobia ha come conseguenza un'anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d'amore sono diventate sospette. (...) L'algofobia interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione del consenso. (...) La mancanza di alternative è un analgesico politico. (...) Si fa così strada una post democrazia. Una democrazia palliativa."

Nella società della positività in cui attualmente viviamo, il dolore è visto come la negatività per antonomasia. Anche la psicologia si è adeguata a questo paradigma e non si occupa più della sofferenza, bensì del benessere, della felicità. Ciò comporta, ad esempio, che farmaci originariamente utilizzati nella medicina palliativa, vengano impiegati anche su persone sane.

"La società palliativa coincide con la società della prestazione. Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza (...) non è compatibile con la performance. La passività della sofferenza non ha alcun posto nella società attiva del poter fare." 

L'anestetizzazione dal dolore colpisce anche l'arte e tutti gli ambiti della cultura:

"Nulla deve più far male. Non solo l'arte, ma anche la vita stessa dev'essere instagrammabile, ovvero priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore. Ci si scorda che il dolore purifica (...) Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi."

La cultura della compiacenza è asservita all'economia, alla mercificazione dei suoi prodotti, al loro consumo.

"L'ambito del consumo invade quello artistico. I beni di consumo si presentano come opere d'arte. (...) La culturalizzazione dell'economia riguarda anche la produzione (che) dev'essere creativa. La creatività come strategia economica consente però solo delle variazioni dell'Uguale. Non ha accesso al completamente Altro. Le manca la negatività della rottura, che fa male." 

Alla ricerca della felicità perduta

Nella società della prestazione il dolore diventa del tutto insensato e inutile, perde qualsiasi appiglio col potere e il dominio e diventa una questione medica. La felicità è identificata con un'ininterrotta capacità di prestazione e il potere, ormai totalmente sganciato dal dolore, opera in forma seduttiva e permissiva, facendoci credere liberi ma sorvegliandoci in continuazione.

"Il dispositivo neoliberista della felicità ci distrae dai rapporti di dominio vigenti costringendoci all'introspezione. Fa sì che ognuno si tenga occupato solo con sé stesso, con la propria psiche, invece di indagare criticamente le questioni sociali. (...) Gli analgesici, prescritti in massa, coprono le circostanze sociali che conducono al dolore. L'assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi, critica (...) isola l'essere umano e conduce a una spoliticizzazione e desolidarizzazione della società. (...) la sofferenza viene interpretata come il risultato del proprio fallimento. Così, invece della rivoluzione, c'è la depressione."

Ma senza dolore non può esserci felicità:

"La vera felicità è possibile solo se infranta. È proprio il dolore a salvaguardare la felicità dalla reificazione. (...) Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità. (...) La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore."

Il dolore è ciò che ci rende più umani, più veri. 

"Il dolore anticipa la morte(...) Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà abolire anche la morte (...) Ma una vita senza morte né dolore non è umana (...) L'essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l'immortalità ma al prezzo della vita." 

Prima ce ne rendiamo conto e prima possiamo tornare a vivere una vita vera. 

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