Una vita come tante, di Hanya Yanagihara

Il fenomeno letterario da otto anni presente nelle classifiche dei libri più venduti divide ancora oggi lettori e critica. A voi è piaciuto?

Prima premessa: di solito non parlo dei libri che non mi sono piaciuti.
Seconda premessa: il romanzo fiume della Yanagihara non mi è piaciuto ma l'ho comunque portato a termine nonostante la mole.
Terza premessa: continuo a pensarci, quindi significa che in qualche modo mi ha segnata.

Non è mai semplice parlare di ciò che non ci è piaciuto, a meno che non si faccia parte della schiera "leoni da tastiera" che amano sparlare a vanvera. Il romanzo "A little life" di Hanya Yanagihara è senz'altro un'opera colossale (1095 pagine) che a quasi 10 anni dalla sua pubblicazione fa ancora discutere (in Italia, ad esempio, si potrebbe discutere della traduzione del titolo) e divide i lettori. 

La riprova l'ho avuta questa estate, ad un incontro con il famoso critico americano Daniel Mendelsohn, di cui è stata recentemente pubblicata una raccolta di saggi e articoli presso Einaudi intitolata "Estasi e terrore. Dai Greci a Mad Man" che vi consiglio spassionatamente di acquistare.



 

Tra i vari temi affrontati durante l'incontro, che spaziavano dalla sua passione per gli antichi greci all'avvento delle serie televisive, Mendelsohn stesso ha sollevato la questione  dell'enorme successo, a suo parere totalmente immeritato, di questo romanzo. La critica di Mendelsohn è rivolta innanzitutto alla sua scrittura, che definisce "spesso atroce, piena di frasi zoppicanti e di tentativi terribilmente forzati di ottenere un effetto lirico"

Personalmente ho trovato il romanzo molto scorrevole e piacevole da leggere, ma devo anche sottolineare che i nostri traduttori spesso migliorano le opere che traducono e Luca Briasco è senz'altro un ottimo traduttore, infatti la versione italiana è davvero ben scritta, nonostante le metafore abbondantemente utilizzate dall'autrice suonino talvolta eccessive. 

Ma la cosa su cui mi sono trovata totalmente d'accordo con il critico della New York Review of Books e del New York Times è che il protagonista, Jude, è venuto proprio male, un personaggio noioso e senza spessore, bidimensionale, che non è riuscito a coinvolgermi nella sua sofferenza, a farmi empatizzare con lui, nonostante il suo autolesionismo sia ampiamente giustificato dai ripetuti abusi subiti fin dalla più tenera età.

Nel complesso ho trovato il romanzo un'inutile carrellata di situazioni sempre più dolorose e tragiche, una vera e propria pornografia del dolore. Scrive Mendelsohn: "C'è qualcosa di punitivo nell'artificiosità e irrimediabilità degli interminabili patimenti di Jude, come se l'autrice stesse dando sfogo a una sua ossessione privata."

Qualche settimana fa, mentre girovagavo in cerca di ispirazione nella mia libreria di fiducia, ho incrociato un paio di ragazze giovanissime (avranno avuto al massimo 18 anni) che sospiravano sopra il romanzo in questione. Non ho saputo resistere e ho chiesto loro se lo avessero letto e cosa ne pensassero. Entrambe hanno risposto di averlo amato moltissimo nonostante il lacerante dolore provato leggendolo. Mi sono permessa di chiedere cosa rendesse tanto speciale questa storia che a me aveva lasciato indifferente (non vorrei sembrare una vecchia cinica, normalmente mi commuovo facilmente). La loro risposta mi ha totalmente spiazzata e ve la riporto più fedelmente che posso: "Jude è come noi giovani e giovanissimi, una persona che ha paura di mostrare al mondo ciò che è veramente e per questo si punisce e cerca di annullarsi. Siamo condannati ad apparire migliori di ciò che siamo realmente perché i social ci espongono continuamente al giudizio degli altri e al confronto con chi ha "apparentemente" più successo di noi." Forse questo non basta a spiegare l'enorme successo di questo romanzo, ma è sicuramente una chiave di lettura e per me è stato davvero interessante confrontarmi con queste giovani lettrici. 

Concludo citando ancora Mendelsohn:

"In una cultura in cui il vittimismo è diventato un modo per ottenere uno status, il libro di Yanagihara - con la sua interminabile sequela di scene di violenza punitiva e umiliante priva di qualunque giustificazione estetica - fornisce una sorta di conforto." 

Direi che così il cerchio si chiude.


 

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